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IN MATERIA DI DIRITTO DI CRITICA: PER LA CASSAZIONE INTEGRA IL REATO DI DIFFAMAZIONE DARE DEL “CLOCHARD”

Massima Cassazione penale sez. V del 14 ottobre 2020 n.33115.

Integra il delitto di diffamazione l’invio di una lettera di contestazione in cui un dipendente venga qualificato come clochard in modo dispregiativo in relazione all’aspetto ritenuto trasandato, non potendo ritenersi configurabile l’esimente del diritto di critica, in quanto tale appellativo, pur in sé non offensivo, assume tale valenza ove venga utilizzato in maniera dispregiativa, con riferimento al vestiario ed alle sembianze, e con modalità del tutto gratuite ed eccentriche rispetto al contesto espressivo di riferimento.

(CED Cass. pen. 2021).

La Corte di Cassazione ha esaminato il ricorso avverso la pronuncia del Tribunale di Trapani, in funzione di giudice di appello,  in riforma della sentenza assolutoria di primo grado. Il Giudice di merito aveva condannato l’imputato per il reato di diffamazione per avere offeso la reputazione di un dipendente dell’azienda, dolendosi della “mancanza di tesserino di riconoscimento e di idoneo abbigliamento… perché dal vestiario usato e dalle sembianze sembrava più̀ un clochard che un dipendente ENEL”, mediante l’invio di una missiva alle direzioni aziendali
In primo luogo, i Giudici di legittimità hanno richiamato il consolidato orientamento secondo cui, in materia di diffamazione, “la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato (orientamento da ultimo ribadito da Cass. pen. Sez. V del 10 ottobre 2019 n. 2473).
Passando all’esame sulla portata offensiva dell’espressione utilizzata, la Corte Suprema arriva alla conclusione che sebbene l’attribuzione dell’epiteto clochard non sia di per sé astrattamente offensiva, nel caso di specie il termine era connotato da una specifica carica denigratoria. Invero, qualora vi siano finalità dispregiative e modalità di attribuzione del termine del tutto gratuite rispetto al contesto espressivo di riferimento, queste configurano il reato di diffamazione, dovendosi escludere l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p..

I Giudici del Palazzaccio hanno ritento le suddette espressioni “non strettamente funzionali alla finalità di disapprovazione dell’operato del suddetto ente, essendo invece sintomatiche di una gratuita ed immotivata aggressione della reputazione del dipendente incaricato del sopralluogo cui ha partecipato l’imputato”. La Corte ha operato una valutazione della portata offensiva delle espressioni applicando, quali criteri interpretativi, le parole utilizzate, la loro evoluzione semantica nonché il contesto socio-culturale e storico nel quale sono espresse. Sulla base di tali indici i Giudici di legittimità hanno ritenuto che – nel caso di specie – il termine “clochard” avesse un significato degenere nell’opinione comune, definito come “oggetto di gratuito e anacronistico disprezzo sociale, frutto di opzioni culturali di “aporofobia”, caratterizzate da odio, repulsione e, in molti casi, violenta ostilità di fronte ai soggetti che vivono in stato di indigenza”.

La pronuncia in esame ha assunto una posizione più rigida sulla continenza nel diritto di critica rispetto ad altri precedenti sentenze.  In effetti,  i parametri per il riconoscimento dell’esimente del diritto di critica si basano su una “forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato” (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2020, n. 17243).  Tanto che i Giudici di legittimità avevano ritenuto continente l’utilizzo di termini quali “puttaniere”, “incompetente” e “idiota” riconoscendo legittima l’asprezza dei toni e delle parole usate rispetto al contesto in quanto strettamente funzionali al legittimo esercizio del diritto di critica (cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2016, n. 37397, Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2015, n. 31669, Cass. pen.,Sez. V, 29 novembre 2019, n. 15089).

Nella sentenza de qua l’analisi condotta dalla Suprema Corte ha dapprima valutato il tenore offensivo in concreto del termine a causa della connotazione negativa comunemente attribuita e in seconda battuta ha contestualizzato la condotta di critica nell’ambito dei rapporti istituzionali /commerciali tra i due uffici, ritendo che questo non potesse integrare un’espressione funzionale al diritto di critica

Si noti infine che l’attribuzione dispregiativa con cui il termine viene utilizzato – secondo gli ermellini – integra l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 595 c.p.: la Corte ritiene che la “palese carica dispregiativa” del termine utilizzato configuri il dolo del reato di diffamazione, che la giurisprudenza, come è noto, individua nella forma del dolo generico “anche in forma di dolo eventuale, implicando comunque l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive” (Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2013, n. 8419; Cass. pen., Sez. V, 12 dicembre 2012, n. 4364).